lunedì 1 maggio 2017

La nuova emigrazione italiana, 7


Prospettive e proposte: mutare le rotte 







Riportiamo in questa serie di articoli una sintesi dell'intervento di Rodolfo Ricci (FIEI – Federazione Italiana Emigrazione Immigrazione) svolto al Seminario organizzato a Roma dalla Fondazione di Vittorio su “Migrazioni, crisi, lavoro" lo scorso 12 Aprile. Nella relazione si fa il punto  sull'effettiva consistenza del nuovo flusso emigratorio dall'Italia che, stando ai dati forniti da istituti statistici europei, risulterebbe essere superiore fino ad oltre 4 volte ai dati Istat/Aire (Anagrafe degli italiani residenti all'estero). Altrettanto sorprendente è che allo stesso tempo, il flusso emigratorio degli italiani verso l’estero risulterebbe ormai essere circa il doppio degli arrivi di immigrati economici e profughi insieme.



Segue da la nuova emigrazione italiana, 6


Immaginario e caratteristiche della Nuova Emigrazione

Si può aggiungere un’altra considerazione riferita alla tipologia e, diciamo così, all'immaginario di questi nuovi migranti; da quello che sappiamo, questi giovani o relativamente giovani migranti non pensano a rientrare; non pensano neanche a costruirsi la casa in Italia, a prescindere dal grado di nostalgia che come ogni migrante provano; sono molto realisti: hanno molti dubbi che il nostro paese possa riproporre loro condizioni di lavoro e di vita dignitose o soddisfacenti a breve o medio termine.
Se è così, si può essere certi che le agognate rimesse per contribuire al pareggio delle partite correnti e quindi alla diminuzione del debito, non vi saranno, o saranno molto irrisorie;  difficilmente vi saranno le opportunità di sviluppo immobiliare finanziate nel dopoguerra in molte aree arretrate del paese, dai capitali degli emigrati.

Sembra che la nuova emigrazione costituisca, per l’Italia, una sorta di “vuoto a perdere”. Che però è costata tantissimo al paese in termini di investimenti del paese e delle famiglie. Nell'ordine di parecchie decine di miliardi, ad oggi. Se i dati delle proiezioni da noi indicate sono corrette, di tratterebbe già oggi di oltre 100  miliardi. Se il flusso continuerà in modo analogo nel prossimo decennio questo esborso di capitale umano sarà calcolabile nell'ordine di diverse centinaia di miliardi di Euro e questo travaso andrà a produrre PIL aggiuntivo ed ulteriore in altri paesi. Si tratta cioè dell’alimentazione di uno spread ben peggiore di quello determinato dagli effetti dei movimenti globali di capitali verso i paesi centrali. E a sua volta, riducendo le opportunità di investimento, esso è destinato a costituire un volano ulteriormente negativo anche per il primo.

Prospettive e proposte
Lo scorso autunno la Filef (Federazione Italiana Lavoratori Emigrati e Famiglie) ha ricordato il 40nnale della morte di Carlo Levi. Abbiamo recuperato in questa occasione diversi documenti, in particolare un discorso tenuto a Grassano nel 1970, il paese del suo confino negli anni 30, durante il fascismo.
In questo discorso, Levi ricorda l’espressione di Francesco Saverio Nitti, pronunciata verso il 1905 o 1906, in cui l’allora presidente del Consiglio italiano, ricordando le condizioni di vita nel meridione, dice che negli anni seguenti all’Unità d’Italia, in effetti, non vi erano molte alternative: “o si diventava briganti o emigranti”. L’espressione è nota. Meno nota la chiarificazione che ne fa Levi. Egli sostiene, infatti,  che il brigantaggio, con tutti i suoi limiti e le sue ambiguità, era purtuttavia una rivolta
sociale determinata dalla speranza di un mutamento. Una rivolta sociale che però fallì. Restò quindi aperta, per le plebi meridionali,  solo la possibilità –stavolta individuale- di emigrare. Cioè la possibilità di cercare Fortuna. La Fortuna è una dea che tocca i singoli, non le comunità, la Fortuna non è sociale. E’ l’alternativa individuale ad una sconfitta sociale.

Questa riflessione mi ha fatto molta impressione. Per l’oggi e per ciò che può accadere: la nuova emigrazione è in effetti, il prodotto di un fallimento sociale e politico.
E’ l’incapacità di valorizzazione di un bene prezioso – e scarso – su cui si è investito, non di un bene in sovrappiù demografico, e forse rimpiazzabile, come poteva ritenersi nel dopoguerra da un paese sconfitto (“imparate una lingua e andate all’estero”).
Per dirla in modo più chiaro, forse non siamo del tutto coscienti che vi è già stata una sconfitta sociale e politica che è al tempo stesso la sconfitta del paese nella sua interezza. Questa sconfitta, che probabilmente terrà il paese sotto scacco per molto tempo, è quella per la quale non risulta possibile fare gli investimenti sul capitale umano di cui il paese dispone. Ciò che corrisponde ad una accettazione indiretta (e allo stesso tempo celata e oscurata) del proprio declino.
Nella nuova divisione internazionale del lavoro e del controllo delle risorse endogene di cui si dispone, le decisioni politiche che assumerà il paese saranno determinanti. Lasciare andare milioni di persone, in questo momento, significa  accettare il ruolo subalterno che qualcuno (le élite globali e le frazioni globalizzata del capitalismo nazionale) ha disegnato per noi, con l’abbaglio che possediamo alcuni settori “fuori mercato” che nessuno ci toglierà mai: beni culturali, turismo, gastronomia, design, ecc..
Da questo punto di vista, la ipotizzata sostituzione di lavoro e di popolazione proveniente da altri paesi extraeuropei, a riempire il buco che si va creando, è una questione che crea una certa inquietudine e su cui è opportuno riflettere con molta attenzione, al di là delle espressioni xenofobe e razziste: da una parte saremo sempre più, come già siamo, punto di primo arrivo della gioventù africana e medio-orientale, dall'altra, erogatori di altra gioventù più o meno autoctona.
Se vi fosse consapevolezza di ciò che sta accadendo, ammesso che per un lungo periodo il paese non avrà le
risorse per valorizzare il proprio capitale umano, allora sarebbe più lungimirante finalizzare ed orientare i nuovi flussi di emigrazione verso destinazioni diverse da quelle prevalenti, utilizzando “l’occasione” negativa e costruendo, ad esempio, politiche di cooperazione internazionale verso paesi in via di sviluppo o che necessitano di risorse umane di un determinato livello di competenze.
In questo modo, almeno, si tratterebbe di un investimento a lungo termine, verso aree emergenti  che potrebbero essere legate in prospettiva al nostro paese, alimentando lo sviluppo di queste aree e contribuendo a ridurre il divario nord-sud, riducendo la pressione immigratoria e trasformando l’emigrazione, da ambito di accaparramento di risorse per i paesi più forti (Nord Europa, Nord America), in fattore di sviluppo cooperativo e a lungo termine con i paesi più deboli. L’America Latina e l’Africa, dovrebbero diventare, in questo caso, le nostre mete di arrivo.
Parallelamente, l’investimento che andrebbe fatto sul versante immigrazione, insieme ad adeguate politiche di integrazione, che però non risolvono in sé la questione, dovrebbe contemplare politiche di formazione e riqualificazione tali da poter riconvertire parte dell’immigrazione in agente e attore di sviluppo per i paesi di provenienza alimentando i settori di sviluppo autoctono e mirando, in primis, all’autosufficienza alimentare ed energetica.
Se in questa fase non siamo in grado di gestire adeguatamente la dinamica geopolitica internazionale in termini di COMPETIZIONE, potremmo tentare rimediare almeno parzialmente, in termini di COOPERAZIONE. E potremmo in parte farlo coniugando il diritto ad emigrare, con il diritto a non emigrare per forza, o ad emigrare dove conviene di più al paese.
In questo senso, almeno, troverebbero un ragione d’essere, gli investimenti in capitale umano già fatti e quelli da fare.
L’altra questione che ci riguarda come organizzazioni sociali e sindacali è quella di non far saltare definitivamente i ponti con la nuova emigrazione che se ne è andata e che se ne sta andando. Oltre al potenziale economico, la nuova emigrazione, proprio per la scelta che fa, rappresenta un forte potenziale critico sul piano sociale e politico che è per noi e per il paese un grande patrimonio.
Su questo piano, sarebbe decisivo strutturare una serie di misure di accompagnamento e di primo orientamento sia alla partenza che all’arrivo nei diversi paesi, che può essere facilmente organizzata attraverso le reti di servizio e associative di cui si dispone sia in Italia che all’estero.
La rete Fiei  (Stati Generali della Associazioni degli italiani all’estero) ed altre reti associative hanno già iniziato questo lavoro di orientamento. Ma questi nuovi servizi alla nuova emigrazione dovrebbero essere parte di un programma di interventi unitario e coerente che miri a tenerci vicina la migliore gioventù che abbandona il paese. Su un progetto integrato di questo tipo è tra l’altro possibile attivare finanziamenti comunitari e quelli regionali (magari evitando di sprecare miliardi di risorse comunitarie).
Infine vi è da tener presente che la messa in discussione di Schengen, derivante dal recente accordo sul Brexit, ma i cui sintomi erano già presenti nell’incedere delle pratiche di espulsioni di cittadini comunitari messi in atto già da parecchi anni da diversi paesi (Belgio, Germania), e che hanno già riguardato migliaia di cittadini italiani in Europa, configurano la necessità di servizi di assistenza e tutela anche in questo nuovo ambito.
I processi di “de-globalizzazione” in atto e di ridefinizione del rapporto tra sovranità dei singoli paesi e sovranità comunitaria, riguarderanno anche, in un modo o nell’altro, i 2,5 milioni di italiani nel nord Europa e certamente le condizioni della nuova emigrazione, anche sul piano delle prestazioni sociali e previdenziali.
C’è insomma una vasto campo di riflessione e di attività su cui misurarsi.

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